Prefazione di
ENRICO FINZI
sociologo, presidente di Astra Ricerche
e della TP.
Ho conosciuto Dimitri Herskovits un anno fa, quando me lo presentò
il suo amato patrigno (che nome terribile, da cattivo delle fiabe,
quand'è stato ed è, invece, una figura paterna dolcissima…). Di
Dimitri mi colpì, naturalmente, l'altezza fuori misura, sui due
metri e 10, credo: un'altezza, mi raccontò dopo poco, che ha determinato
la sua vita, il suo essere - alla lettera - originale, diverso,
sin dai primi anni di scuola. Mi colpirono tre cose che racconto:
il suo doversi piegare, quasi inchinare, per poter baciare qualcuno
e la connessa impossibilità di essere baciato di slancio da chiunque,
se non da steso (come Dimitri sembra anche da seduto); il suo restar
sempre lassù, quasi tra le nuvole, come una giraffa umana; il rivendicare
la propria peculiarità, trasformandola in uno sguardo non solo alto
ma anche altro.
Avevo spinto Dimitri a mettere in luce la sua stravaganza e me
lo sono ritrovato con questo curioso libretto in mano: un libretto
che ho letto e guardato d'un fiato, malgrado non sostenga alcuna
tesi, non abbia un inizio e una conclusione (a volte pure nei singoli
pezzi che lo compongono), sia insomma assai distante dai testi che
leggo per lavoro o discuto con i miei (miei?) studenti o collaboratori
o soci della TP (la più antica - ha 61 anni di vita - e grande associazione
italiana di comunicatori professionisti, giornalisti esclusi, che
mi ha eletto presidente all'inizio del 2006). Cosa ci ho trovato
e perché suggerisco di farsene stimolare, andando a caso in cerca
di emozioni? Ci trovo, anzitutto, l'insolita capacità, a volte imperfetta
ma peculiare, di usare la creatività altrui per creare storie. Perché
questo è il libro del giovane Herskovits: l'immagine di un annuncio
pubblicitario (in genere una pagina di advertising 'stampa' o di
un megaposter in affissione) accanto a cui l'autore ha riportato
raramente una novelletta, più frequentemente un frammento con un
accenno di plot, pochi personaggi, un modulo immaginato di vita.
La cosa interessante è che in genere non esiste alcuna vera corrispondenza
tra l'immagine e la vicenda o il grumo di sensazioni lì accanto;
e comunque quasi mai si osserva un nesso tra la categoria di prodotto
oggetto dell'annuncio e la reazione soggettivissima di Dimitri.
No, è proprio come dicevo: la creatività attiva creatività, l'affabulazione
implicita in ogni buona pubblicità scatena l'affabulazione del 'viewer'.
Reputo interessante questo piccolo lavoro anche come ricercatore
sociale e di marketing che, come altri, si occupa di 'testare' la
pubblicità, di verificarne - ex ante e post - la comprensione e
l'accettazione, la decodifica da parte dei destinatari, i valori
trasmessi, le emozioni indotte, le associazioni attivate, il concreto
(e costoso, sempre più costoso) contributo alla costruzione o alla
modifica dell'immagine d'un prodotto, d'una marca, d'un'impresa
od organizzazione, eccetera. Ebbene, nei cosiddetti 'copy test'
noto che la pubblicità spesso non riesce a 'mettere in moto' il
cittadino/consumatore/utente/risparmiatore/elettore: gli dà sì talune
informazioni, magari attiva coinvolgimento e reazioni affettive
parlando al cuore e non solo alla testa dell'interlocutore, spinge
alla prova o all'acquisto fedele, dà o meglio aggiunge vantaggi
competitivi rispetto ai concorrenti (e con ciò consegue larga parte
dei propri obiettivi), ma non appare in grado di spingere il destinatario
al tam tam, al coinvolgimento degli altri, a trasformare una 'one
way communication' in una 'viral communication', nel diffondersi
di un virus positivo.
Mi sono spesso chiesto il perché di tale deficit di capacità attivatoria
di molti annunci pubblicitari; e mi sono risposto, anche alla luce
di specifiche ricerche, che 'gioca contro' una carenza di empatia,
di complicità, tra chi emette e chi riceve il messaggio. Certo,
c'è chi riesce in trenta secondi a costruire storie affascinanti
e persino travolgenti; ma pochissimi sono in grado di raccontare
favole che spingano e raccontare favole, parlando - s'intende -
al bambino che è in noi, quello che dobbiamo alimentare perché continui
ad alimentare il nostro io adulto e sociale.
Ecco, Dimitri ci riesce: va in giro per Milano con la sua altissima,
quasi circense bicicletta su misura, guarda ancor più in alto e
vede grandi manifesti che per una volta lo sovrastano. E non si
limita a prender nota che è stato lanciato un nuovo prodotto, o
a farsi sedurre dalle promesse d'una marca, o a desiderare il prodotto-totem
oppure la modella sexy: no, lui si fa coinvolgere a fondo, si ferma
ad immaginare, parte da quello stimolo per imbastire (meglio: per
accennare) un romanzo, popolato da persone di tanti Paesi (l'autore
è un giramondo) che fa sentire e parlare. Poi torna a casa e mette
il tutto in pagina, altre è volte incuriosito da una pagina pubblicitaria
su un periodico, che improvvisamente gli scatena la fantasia.
Senza alcun dubbio tutto ciò avviene perché il giovane Herskovits
è strano, originale: lui vede il mondo da un altro punto di vista.
Ma risulta attraente che tale peculiarità si traduca in scrittura:
quasi che l'immagine, come spesso in pubblicità, richieda, 'chiami'
un suo testo.
Sta qui il valore di questa testimonianza non banale, nello spingerci
a tornare a raccontare a noi e poi agli altri delle fiabe, partendo
'a monte' dai racconti altrui e col solo fine di muovere l'immaginazione
di altri, 'a valle': una catena ininterrotta di 'mamma, raccontami
una favola!'. Ora - poiché siamo diventati troppo grandi o non ci
sono più le mamme d'una volta oppure siamo soli, troppo soli - abbiamo
la necessità vitale di raccontarci noi le nostre fiabe, magari senz'altro
aiuto che un'immagine rapita qua o là. Sarebbe, però, un gioco quasi
solipsistico se non divenisse, come in questo caso, stimolo ad altri,
stimolo a tutti noi a coinvolgerci di più nelle nostre favole, che
nascono da favole diverse, che creano in altri favole ancora diverse.
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